[ Interviste / Interviews ]
Intervista agli HALL OF MIRRORS, a cura di Fabrizio Garau.
FABRIZIO: Due sono i protagonisti dell’intervista. Andrea Marutti, cioè Amon, Afe Records e altro ancora, è attivo da più di dieci anni nell’ambito dell’elettronica sperimentale e ambientale. Il suo approccio alla materia è molto austero e minimalista: facile parlare di dark ambient, anche se ci si deve aspettare tanta profondità e tanto buio, ma non rintocchi di campane a morto o rigurgiti lovecraftiani. Giuseppe Verticchio, cioè Nimh, moniker con il quale si muove lungo gli stessi territori di Andrea, ma con un occhio alla contaminazione con la musica etnica e non solo. Amici da tempo, pubblicano per Eibon una prima collaborazione Amon / Nimh, poi si ritrovano in uno stesso studio per dare vita ai due episodi di un nuovo progetto, Hall Of Mirrors, nel quale i loro pregi – come minimo – si sommano, dando vita a due dischi incisivi e vari, il primo più sepolcrale, il secondo più arioso e composito. Andrea e Giuseppe, tra l’altro, riescono a coagulare intorno ad Hall Of Mirrors tutta una serie di contributi di altri sound artist italiani, così che entrambi i dischi mostrano un’interessante rete di rapporti che forse è eccessivo definire scena, ma che convince a tener d’occhio quanto succede attorno a determinate etichette di casa nostra. GIUSEPPE: A dire il vero non c’è una ragione precisa… Molto semplicemente quando abbiamo registrato l’album “Reflections on Black”, al quale avevano collaborato come “ospiti” anche Nefelheim e Daniela Gherardi, abbiamo scelto di comune accordo di dare un nome specifico a questo nostro progetto. Nelle nostre intenzioni il progetto prevede la presenza di un “nucleo” fisso, io e Andrea ovviamente, e la partecipazione, ad ogni nuovo album, di altri amici/musicisti “invitati” di volta in volta. Nei giorni in cui ci trovavamo in Abruzzo a registrare il primo album abbiamo ovviamente parlato a lungo a proposito del possibile nome da dare al progetto, e quando Andrea, tra le altre varie ipotesi, ha suggerito appunto “Hall of Mirrors” mi è parso subito un nome perfetto, adeguato al genere di musica che stavamo registrando, e molto “evocativo” ... Magari Andea può dirti di più su come è venuta a lui per primo l’idea di utilizzare proprio questo nome… ANDREA: Come diceva Giuseppe, mentre valutavamo varie idee riguardo al nome da dare al nuovo progetto, all’improvviso dal cilindro è spuntato “Hall of Mirrors”. Al di là della suggestione che questa sigla infonde, il nome mi è parso subito ben rappresentativo della nostra scelta di avere in ogni disco degli “ospiti” diversi: una “sala degli specchi” che riflette non soltanto me e Giuseppe dunque, ma anche tutti gli altri amici/musicisti che l’attraversano, con l’intenzione di avere – tradotte in musica – immagini sempre diverse. FABRIZIO: Molto spesso le collaborazioni tra musicisti elettronici – ma non solo, ormai - avvengono con uno scambio di file. Voi come vi siete trovati a essere nello stesso studio assieme. Che vantaggi vi ha portato? GIUSEPPE: Poter lavorare insieme per giorni interi, fianco a fianco, di fronte agli strumenti, è sicuramente un’esperienza più gratificante, diretta e probabilmente anche più “efficace” rispetto ad esperienze collaborative che si risolvano esclusivamente attraverso un processo più o meno articolato di scambio di files e interventi di registrazione, composizione, editing e montaggio audio “a distanza”… Lavorando insieme sicuramente si riesce a trovare il miglior punto di “equilibrio” tra le diverse “attitudini” delle persone coinvolte, vengono meglio valorizzati i singoli apporti, e soprattutto è possibile sviluppare e portare avanti in tempo reale e in piena “sintonia”, istante dopo istante, ogni nuova idea, ogni nuovo spunto, ogni nuova “invenzione”… Sicuramente si guadagna molto in originalità, le possibilità di espressione si espandono in modo significativo, e il naturale “filtro” costituito dalla necessità di dover condividere i risultati che via via si vanno ad ottenere è forse anche una maggiore “garanzia di qualità”, giacchè laddove, ad esempio lavorando su un brano, una soluzione adottata non dovesse convincere a pieno l’uno o l’altro, si è maggiormente motivati ad intervenire ulteriormente e a ricercare un risultato ancora migliore e ancora più “convincente” per entrambi… ANDREA: Direi che sin dalla prima volta ci siamo trovati molto bene, i vantaggi sono molteplici come ha già illustrato Giuseppe. Il più importante ritengo sia l’interazione del momento, il poter appoggiarsi/agire sull’idea dell’altro - magari proprio mentre questa nasce – e dare un corso differente ad intuizioni che prenderebbero una piega diversa se sviluppate da noi singoli in separata sede. E poi anche il lavorare a “quattro mani” in tempo reale su sintetizzatori, effetti, etc. da’ una certa soddisfazione e permette di ottenere risultati più “ricchi”. FABRIZIO: A Forgotten Realm partecipano Andrea Ferraris e Andrea Freschi, altri due italiani che si muovono nei vostri stessi ambiti musicali e con i quali le strade possono incrociarsi abbastanza facilmente, ad esempio comparendo su una stessa etichetta, su una stessa compilation o collaborando. Cos’hanno dato al disco? GIUSEPPE: Il loro contributo è stato senz’altro importante. Pur non essendo “fisicamente” presenti durante la registrazione di “Forgotten Realm”, avendoci di fatto fornito delle parti preregistrate che io e Andrea Marutti abbiamo utilizzato in modo assolutamente libero e incondizionato durante la realizzazione del CD, debbo dire che una parte significativa dei suoni che è possibile ascoltare su “Forgotten Realm” è proprio costituita da quelle “basi” che Andrea Freschi e Andrea Ferraris ci hanno gentilmente messo a disposizione, e che in qualche modo hanno comunque contribuito a caratterizzare il “sound” generale del disco. ANDREA: Hanno dato molto ed il loro contributo è stato assai prezioso, in particolare ricordo i field-recordings di Andrea Freschi sotto al flauto di Giuseppe nel brano “Gates of Namathur” e la chitarra quasi irriconoscibile di Andrea Ferraris nel finale di “Among the Ruins”. FABRIZIO: Poco tempo fa ho recensito l’esordio di Luminance Ratio (Eugenio Maggi, Andrea Ferraris, Gianmaria Aprile). Su Silentes, tra le altre cose, è uscito invece il progetto Maribor. Senza usare il termine “scena”, si può dire con tutte queste collaborazioni che per i suoni ambient, industrial e sperimentali in Italia qualcosa si stia muovendo di più? GIUSEPPE: Sicuramente in Italia, ma debbo dire anche in senso più generale, c’è un evidente “proliferare” di artisti, progetti, etichette e realtà di vario genere che in qualche modo si muovono nei “territori” della musica ambient, industriale, sperimentale e dintorni… In parte questo è sicuramente dovuto al diffondersi delle nuove tecnologie, che ormai consentono più o meno a tutti, con investimenti economici estremamente contenuti e conoscenze tecniche anche molto modeste, di allestire in casa un piccolo studio di registrazione, un sistema di produzione e duplicazione di CD-R, incluse stampa di grafiche di buona qualità e così via. Anche i costi dei sintetizzatori, o in senso generale di apparecchiature elettroniche e strumenti “base” sono sicuramente più “abbordabili”, e questo senza considerare che con un PC e qualche buon software è ormai possibile fare cose assolutamente impensabili fino a poco più di un decennio fa… Tutto ciò è sicuramente positivo per molti aspetti, ma al tempo stesso debbo dire che negli ultimi anni ho notato purtroppo un generalizzato livellamento verso il basso e “appiattimento” della qualità di quanto viene prodotto e circola in ambito elettronico-sperimentale. Ovviamente non mi riferisco ai nomi che hai appena citato, che invece sono artisti che stimo e apprezzo da tempo, ma l’impressione che ho è che la maggiore diffusione e l’apparente maggiore interesse verso questo genere di musica vada di pari passo con la diffusione di un approccio molto più “superficiale” alla stessa (superficialità dilagante peraltro non solo in ambito musicale…) che sta letteralmente soppiantando quel più “genuino”, rigoroso, e soprattutto molto più ambizioso spirito di ricerca e di sperimentazione che, almeno fino ad alcuni anni fa, era caratteristico di chi si dedicava a questo genere di musica. Questa non vuole essere una critica gratuita a tutti gli operatori del settore, giacchè per fortuna esistono sempre artisti ed etichette che continuano a produrre e diffondere musica di ottimo livello; ma Il problema è che, a fronte di questo ormai “sterminato oceano” di offerte musicali di livello spesso medio-basso e proposte sotto ogni forma e attraverso ogni canale (CD, DVD, vinile, CD-R, DVD-R, MP3, streaming in rete, performances live…), molti artisti veramente validi, e molte etichette seriamente impegnate nella produzione di musica di buona qualità, rischiano talvolta di non riuscire ad emergere, di perdere visibilià, e talvolta, quando si tratta di realtà già consolidate nel tempo, di vedersi addirittura sottratti, nel “caos” generale, quegli spazi conquistati con decenni di serio impegno, dedizione, e lavoro appassionato. ANDREA: Io credo che le collaborazioni di cui parli, a livello generale, siano più che altro mosse dallo spirito di amicizia e dalla stima reciproca di chi le intraprende. L’entusiasmo di chi conosco personalmente e si muove a vario titolo nell’ambito della musica Ambient / Industrial / Sperimentale è pressochè sempre ad ottimi livelli, ma per quanto entusiamo si possa trasudare restiamo sempre una nicchia nella nicchia. A livello personale non ritengo che In Italia ci sia qualcosa che si muove più del solito, penso che ci vorranno decenni per uscire dall’appiattimento culturale che permea la nostra società, se mai ne usciremo. FABRIZIO: A questo riguardo, quanto è importante il lavoro di Silentes? GIUSEPPE: Sicuramenta la mia risposta a questo quesito non può essere assolutamente “imparziale”, giacchè Silentes ha di fatto prodotto in questi ultimi anni quasi tutta la musica che ho personalmente realizzato, sia attraverso il mio progetto solista Nimh, sia attraverso altri progetti di tipo collaborativo. ANDREA: Il lavoro di Silentes è molto importante, così come quello di ogni altra etichetta parimenti “seria” che si occupi della produzione di queste estreme frange musicali. Servono etichette e persone “aperte” che investano – anche e soprattutto – a lungo termine sui musicisti; Stefano lo fa’ in modo eccellente con gran dispendio di risorse ed energie, nonché dell’entusiasmo a cui facevo riferimento rispondendo alla domanda precedente. FABRIZIO: A pensarci, è curioso come tutti e due partiate da solisti e negli ultimi tempi siate giunti a lavori sempre più “di gruppo”, sempre con persone diverse, pratica decisamente più semplice in ambito elettronico che in quello rock, anche se ormai tutto accade ovunque. È un percorso che seguite consciamente oppure negli anni è inevitabile? GIUSEPPE: Personalmente ho sempre amato fare musica in modo molto vario. Al di là delle esperienze collaborative, anche ascoltando i miei vari CD solisti come Nimh appare abbastanza evidente la mia naturale e istintiva propensione per la continua ricerca di nuove forme sonore, nuovi percorsi musicali che non siano mai troppo simili a sé stessi, a quanto già fatto in passato, o a quanto già proposto e abbondantemente “collaudato” negli anni da altri artisti. E’ quindi assolutamente “fisiologico” che, in quest’ottica di continua e “aperta” ricerca di nuove soluzioni e nuovi stimoli, nasca talvolta anche l’idea di portare avanti progetti collaborativi con altri artisti, soprattutto quando questi sono anche degli amici, delle persone con cui mi trovo in particolare “sintonia” e per cui provo sincera stima. Queste collaborazioni nascono il più delle volte in modo molto spontaneo, e sono solitamente molto gratificanti in quanto mi consentono, come nel caso dei CD realizzati con Andrea come “Hall of Mirrors”, di portare a compimento degli album che altrimenti con le mie sole forze, attitudini e capacità non avrei mai potuto realizzare. ANDREA: Per me le collaborazioni si inseriscono in una specie di percorso “evolutivo”; mi sembra naturale che dopo anni e anni passati a fare musica per conto proprio ad un certo punto si senta la voglia di provare a farlo insieme ad altre persone. Senza dimenticare poi il ruolo determinante che l’amicizia ha in tutto ciò e di come sia interessante conoscersi meglio confrontandosi anche in ambito “artistico”. FABRIZIO: Saranno artwork e titoli a influenzarmi, ma non sembra anche a voi che Reflections On Black sia più catacombale, mentre Forgotten Realm, che comunque solare non è, dia l’idea di trovarsi di più all’aperto, come se succedessero più cose? In ogni caso, c’era una pianificazione dietro a questi primi due album? GIUSEPPE: Mi trovo sostanzialmente d’accordo con te. Probabilmente il nuovo “Forgotten Realm” appare effettivamente meno claustrofobico/catacombale rispetto al precedente “Reflections on Black”. Nonostante la “formula” sia rimasta sostanzialmente simile, credo che quello che dà un senso di maggiore “apertura” e “respiro” al nuovo album sia il modo diverso in cui è stata usata la chitarra elettrica, e l’effettistica in senso più generale. Il suono della chitarra è molto “morbido”, fluido, dilatato, arricchito di riverberi dal decadimento molto lungo e lento, così come un’effettistica piuttosto simile è stata applicata anche alla parte di flauto di “Gates of Namathur”… La mia idea è che sia proprio questo elemento a donare un senso di maggiore “apertura” al sound che caratterizza ampie parti del nuovo album. Quanto alla pianificazione… Avendo registrato entrambi i CD in Abruzzo nei periodi estivi, lavorando fianco a fianco e non attraverso uno “scambio di files” a distanza, c’è stata soltanto quel minimo di pianificazione necessaria ad organizzare la cosa dal punto di vista prettamente “logistico”. Nulla di particolare neanche per quanto riguarda il “concept” per così dire, o accordi preventivi su quello che avrebbe dovuto essere il “contenuto sonoro” finale del CD. Semplicemente abbiamo portato con noi tutto quanto avrebbe potuto essere utile alla registrazione dell’album, ci siamo messi davanti agli strumenti per alcuni giorni, e da lì abbiamo passo dopo passo concepito e sviluppato la musica, le idee per i titoli, le immagini per le grafiche e quant’altro. L’unica cosa che avevamo pianificato con largo anticipo era la partecipazione di Andrea Freschi e Andrea Ferraris come “ospiti”, e ovviamente prima di incontrarci per la registrazione del CD avevamo provveduto a raccogliere il loro contributo in forma di files audio. ANDREA: No, nessuna pianificazione, i dischi sono il frutto di periodi di tempo passati insieme in cui più o meno tutto ha preso forma. Le sequenze dei brani, gli artwork e i titoli sono complementari e vorrebbero per l’appunto suggerire dei percorsi che sono perfettamente compatibili con quelli che hai esposto nella tua domanda. FABRIZIO: In questi anni molta ambient parte dalla chitarra. Non è stato sempre così, anche se Fripp e Eno qualcosa pur vorranno dire. In Hall Of Mirrors la chitarra viene utilizzata in chiave ambientale, ma non dimenticate il consueto “armamentario” fatto di synth, campionamenti e così via. Cosa dà in termini di suono che non possa essere ottenuto per via digitale? GIUSEPPE: Per quanto possa apparire strano, debbo dire di non essere particolarmente “attratto” dalle apparecchiature elettroniche per quanto riguarda la generazione dei suoni e la costruzione delle parti fondamentali che fungono da “ossatura” per realizzare un brano, o in senso più generale una composizione. In realtà ho sempre considerato le apparecchiature elettroniche, generatori di suoni ed effetti, come una componente sicuramente indispensabile ma sostanzialmente “di contorno”, di “riempimento”, di “ausilio” a processi compositivi che solitamente “partono” invece da idee e registrazioni effettuate con strumenti di tipo più tradizionale, come la chitarra appunto, o altri strumenti acustici, o ancora di più (mia particolare passione) strumenti etnici dai suoni assolutamente inediti e in qualche modo “particolari”. Dal mio punto di vista quindi tenderei piuttosto a “rovesciare” la domanda, e dire invece cosa possono aggiungere gli “armamentari” elettronici e digitali a quanto è possibile invece ottenere con la chitarra o con altri strumenti. Comunque moltissimo, giacchè anche soltanto a livello di applicazione di effetti, manipolazione ed editing dei suoni, consentono risultati straordinari, permettendo talvolta con pochi semplici “tocchi” di valorizzare significativamente delle parti suonate e registrate con strumenti non elettronici. Ma non solo, giacchè comunque un uso sapiente ed un mix ben “calibrato” di strumenti elettronici e non, è in grado di restituire combinazioni sonore di una ricchezza e di una variabilità timbica incredibile, di un impatto e di “efficacia emotiva” assolutamente irraggiungibile utilizzando esclusivamente strumenti elettronici o esclusivamente acustici. Credo che le “vibrazioni” che i due generi di suoni riescono a trasmettere siano di tipo assolutamente diverso e perfettamente complementare, e per questo fin dai miei primi album ho spesso cercato di far “felicemente convivere” sonorità di tipo elettronico e di tipo acustico. ANDREA: In “Forgotten Realm” quasi tutte le parti più “melodiche” sono suonate con la chitarra, ciò rende sicuramente il disco più ricco a livello timbrico. Credo sarebbe molto interessante prevedere anche l’utilizzo più espanso di altri strumenti acustici nell’economia del progetto in futuro. FABRIZIO: Giuseppe, in “Gates Of Namathur” suoni questo flauto chiamato “khlui”. Tu viaggi molto, quindi mi piacerebbe ci raccontassi la storia che sta dietro alla scoperta di questo strumento, qui fantastico in chiave ambientale. GIUSEPPE: Il Khlui è uno degli strumenti più diffusi nella musica tradizionale thailandese. Si tratta in sostanza di un flauto, di fattura tutto sommato abbastanza semplice, talvolta costruito in legno duro scavato, ma molto diffuso anche nella più semplice versione in bamboo, che è possibile trovare senza difficoltà anche nei numerosi mercatini locali. Sulla mia pagina personale su Myspace (www.myspace.com/nimhpage), nella sezione “Immagini”, è possibile accedere ad alcuni “Album” di fotografie, e tra essi ce n’è uno dedicato specificatamente alle foto dei miei strumenti etnici, tra i quali è presente anche il Khlui che ho utilizzato in questo brano (è quello chiaro “decorato” con una specie di “reticolo”, ottenuto attraverso un effetto di bruciatura più scura). Ha un suono molto bello, che viene modulato non solo attraverso la “classica” occlusione dei fori con le dita, ma anche modificando opportunamente la posizione delle labbra, l’angolazione, e la “pressione” dell’aria che si immette, per ottenere durante l’esecuzione particolari variazioni espressive, timbriche e di “pitch”. In “Gates of Namathur”, riallacciandomi anche al discorso fatto poco sopra, ho potuto ulteriormente espandere le capacità espressive di questo strumento, di per sé già comunque notevoli, utilizzando un multieffetto, applicando una particolare equalizzazione, un leggero delay, un profondo e “avvolgente” riverbero, e soprattutto intervenendo in tempo reale attraverso un pedale, per trasporre fino ad un ottava in basso il suono dello strumento originale. Ascoltando il brano infatti è possibile notare come i fraseggi siano talvolta ripetuti su ottave diverse, creando una specie di “duetto virtuale” durante il quale appare come se ad una sequenza di note prodotte con un flauto su frequenze medie, “rispondesse” di volta in volta un diverso flauto, riproducendo la medesima sequenza di note ma su tonalità più bassa e con timbrica più “profonda”. Sfruttando questo effetto ottenuto grazie alla “complicità” delle apparecchiature elettroniche, ed enfatizzandolo ulteriormente grazie alle caratteristiche intrinseche dello strumento che, esattamente all’opposto, mi consentivano di alzare il pitch delle note che producevo aumentando sensibilmente la pressione dell’aria e modificando la posizione delle labbra, sono riuscito ad ottenere il risultato che è possibile ascoltare in “Gates of Namathur”. ANDREA: Le parti di flauto in “Gates of Namathur”, al di là del mio giudizio personale, rappresentano probabilmente uno degli apici del disco. Spero che Giuseppe abbia voglia di riproporsi con altri strumenti a fiato nei prossimi capitoli del progetto. FABRIZIO: Che funzione svolgono le parti più sature e rumorose all’interno di Forgotten Realm? Da questo punto di vista non siete mai aggressivi, ma utilizzate comunque anche queste soluzioni. GIUSEPPE: Le parti un po’ più “rumorose”, in qualche modo più “aspre” e “impattanti” fanno da evidente “contrasto” alle ampie parti del CD in cui invece i suoni sono decisamente più “morbidi”, dilatati e “ambentali”. Personalmente nella musica che realizzo ho sempre amato inserire forti contrasti, alternanze di sonorità ora più “quiete” ora più “aggressive”… Dal mio punto di vista, quando queste alternanze sono ben “congegnate”, e l’inserimento delle parti più “rumorose” ben collocato (come sonorità, tempismo, come progressione nelle dissolvenze in entrata e in uscita…), si ottiene un risultato complessivo che riesce a valorizzare l’intero “fluire” della musica di un CD, risultando più “coinvolgente” dal punto di vista emotivo e restituendo in generale un maggiore senso di “dinamismo”, di variabilità, di creatività; alleviando per così dire la “fatica di ascolto” che è possibile accusare ascoltando, ad esempio, musica basata esclusivamente su parti molto “rumorose” e aggressive (tipo un certo industrial/power electronics), ed evitando al tempo stesso l’insorgere di quella sorta di senso di “noia” che talvolta penalizza la musica basata esclusivamente su sonorità prettamente ambientali o drone-oriented. ANDREA: Le sonorità contenute all’interno dei brani di Hall of Mirrors sono piuttosto dinamiche, credo che ci sia un buon bilanciamento tra i momenti più calmi e i “crescendo” rumoristici. Al contrario di Giuseppe, e con rare eccezioni, nei miei dischi solisti tendo a conservare un mood continuo all’interno dei brani - e degli album in generale - perché mi piace lasciarmi “assorbire” dalla profondità di certi suoni senza che ulteriori elementi intervengano a “disturbare” l’ascolto. Hall of Mirrors è anche un’occasione per utilizzare soluzioni differenti dal mio classico “modus operandi”. FABRIZIO: Il solito spazio finale per i vostri progetti futuri, dato che siete tutti e due attivi su più fronti. GIUSEPPE: Per quanto riguarda future pubblicazioni, posso anticipare che è già pronto un nuovo CD del mio progetto solista Nimh. Il titolo è “Krungthep Archives”, stilisticamente si colloca più o meno “nel mezzo” tra “The Missing Tapes” e “Travel Diary”, ed è stato registrato in gran parte a Bangkok (“Krungthep” in lingua locale) nel 2007 utilizzando strumenti tradizionali thailandesi. Salvo imprevisti dovrebbe uscire dopo l’estate prossima. Per il resto so che Stefano Gentile di Silentes sta già pensando al secondo “capitolo” del progetto aperto “Maribor", di cui è da poco uscito il CD “Atrocity Exhibition” con la partecipazione mia, di Andrea Marutti, Maurizio Bianchi, Pierpaolo Zoppo/Mauthausen Orchestra e lo stesso Stefano Gentile. Spero inoltre vivamente, nel corso magari della prossima estate, di riuscire a registrare con Andrea il nuovo “Hall of Mirrors”, progetto già programmato l’anno scorso e purtroppo “saltato” per circostanze sfortunate, tra le quali il terremoto in Abruzzo che ci ha di fatto impedito di organizzare il nostro periodico incontro nel luogo (un piccolo paesino a 20 km da L’Aquila) dove spesso ci incontriamo e dove abbiamo registrato anche i nostri precedenti CD collaborativi. ANDREA: Nel corso dell’anno dovrebbero vedere la luce alcuni CD che ho realizzato insieme ad altri amici: l’esordio del progetto Molnija Aura – insieme a Davide Del Col degli Echran – è programmato per uscire su Topheth Prophet; gli accordi per la pubblicazione di una mia collaborazione con Fausto Balbo sono in via di definizione, probabilmente parteciperò a questa pubblicazione tramite Afe, la mia etichetta. Il secondo album del progetto Sil Muir – con Andrea Ferraris - è terminato da tempo, ci stiamo muovendo per cercare un’etichetta interessata a pubblicarlo. Sempre riguardo a Sil Muir, l’ossatura del terzo disco è pronta, stiamo valutando l’inserimento di ulteriori elementi. Da tempo è pronto anche un mio disco molto minimale – ridotto all’osso, oserei dire – che si intitola “Rest Your Eyes On Verdant Soil”, nel corso dell’anno ho intenzione di realizzarne una piccolissima edizione con package realizzato “a mano” come ai vecchi tempi. Spero proprio che quest’anno sia nuovamente possibile incontrare Giuseppe per lavorare insieme ad un nuovo disco.
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