[ Interviste / Interviews ]
Intervista a GIUSEPPE VERTICCHIO/NIMH, a cura di Davide Riccio.
DAVIDE: Ciao Giuseppe. Intanto ti chiedo perché sei Nimh, ovvero nickel-metal hydride? Ha a che fare con qualcosa di energeticamente ricaricabile come gli accumulatori? GIUSEPPE: Potrà sembrare curioso, ma in realtà l’idea di utilizzare la sigla “Nimh” per il mio progetto musicale non è derivata da quel tipo di accumulatori (di cui all’epoca neanche conoscevo la sigla), quanto piuttosto dal cartone animato di Don Bluth “Brisby e il segreto di Nimh”. Senza alcuna ragione “logica” se non per il fatto che avevo bisogno di uno pseudonimo breve e semplice da ricordare e pronunciare anche per chi non fosse italiano (come puoi immaginare il mio vero nome “Giuseppe Verticchio” era assolutamente improponibile a questo scopo), e pensando ad una possibile soluzione mi venne in mente quel vecchio cartone animato, che molti anni prima avevo apprezzato, e quella parola… “Nimh”, che mi apparve subito una scelta perfetta. DAVIDE: Qual è il tuo primo disco in assoluto da cui è cominciato tutto, ossia nel tuo percorso sperimentale? GIUSEPPE: Dalla punto di vista dell’ispirazione sicuramente l’input “decisivo” fu l’ascolto dell’album “Timewind” di Klaus Schulze. Non subito però… perché al primo ascolto onestamente mi annoiai, essendo all’epoca ancora legato soltanto a “formule” elettroniche più “pop oriented” per così dire. DAVIDE: Ho in questi mesi ascoltato diversi tuoi lavori. La musica elettronica oggi più del passato ha bisogno di forti idee e progettualità. Non basta più la novità dei suoni fine a se stessa. Vorrei che uno per uno ci dicessi quali sono stati i fulcri, le diverse idee attraverso cui hai/avete lavorato per ciascuno dei lavori che ho ascoltato. A cominciare dal progetto noise-dark-ambient "Hall of Mirrors", dal titolo Altered Nights, doppio cd con "The Afeman" Andrea Marutti, anno 2010. GIUSEPPE: Nella tua premessa dici una cosa molto vera in merito al fatto che la musica elettronica di oggi, più che in passato, ha bisogno di forti idee e progettualità, e che non basta più la novità dei suoni fine a sé stessa. Questo anche perché ormai diventa sempre più difficile “scovare” suoni davvero nuovi e sorprendenti, in un momento storico in cui si può trovare di tutto ovunque (strumenti “fisici” e suoni “virtuali”). Ma questa necessaria “progettualità” deve essere “reale” e concreta nel momento della creazione della musica… cosa che purtroppo oggi molto spesso non è… E vedo sempre più di frequente produzioni che cercano di “mascherare” la sterilità dei contenuti musicali (e relativa inconsistenza progettuale e artistica) con cervellotiche (e secondo me altrettanto sterili) pretese progettuali/concettuali/intellettuali esibite in vario modo negli artwork, atte (almeno nelle intenzioni…) ad aggiungere “valore” a qualcosa che, di per sé, di valore ne ha ben poco. DAVIDE: Domanda lunghetta, lo so... Bellissima l'origine del nome inglese di drone: "drum" o "dream", proprio come il "sogno", qualcosa che si ricollega all'ipnotismo, ad altri stati mentali alterati rispetto alla veglia lucida... Che significato ha per te il bass drone sound? Anzi, per ritornarne alle origini indo-europee e sanscrite, il dhran? Che tipo di legame c'è tra il suono arcaico dei droni o bordoni (a cominciare da quelli vocali come nel deep throat singing tibetano) delle più antiche civiltà sciamaniche e spirituali, estranianti o meditative, i suoni del cosmo (un tempo immaginati e oggi in parte noti) e il drone elettronico dei tuoi lavori? Cos'è oggi e per te la "spiritualità" del suono? GIUSEPPE: E’ indiscutibile che i drones, di qualsiasi origine, hanno spesso un ruolo determinante nell’ambito della musica elettronica sperimentale, e la mia ovviamente non fa eccezione. Ciò che lega esperienze antiche e sviluppi più moderni nell’utilizzo musicale dei drones è di certo la loro peculiarità “timbrica” e la loro naturale attitudine a suggerire quel senso di tensione ipnotica e profondità che spesso si desidera evocare, in questo ambito musicale, e analogamente nelle musiche rituali/cerimoniali del passato anche più remoto. Detto ciò, per quanto mi riguarda utilizzo i drones come qualsiasi altro elemento musicale che entri a far parte delle mie composizioni, per il semplice “contributo” sonoro ed emotivo che può dare a ciò che sto andando a realizzare. Mi chiedi cosa sia per me la “spiritualità” del suono… Fermo restando che ognuno di noi possa trovare nella musica, nel suono, o in qualsiasi altra esperienza di tipo artistico (e non solo) una qualche forma di spiritualità, per quanto mi riguarda ho una visione molto più “concreta” e “diretta” delle cose, quindi anche del suono, della musica, e più in generale di tutto quanto quotidianamente mi circonda. Non sento abitualmente la necessità di ricercare significati “altri” nelle cose, e mi limito a prenderle per quello che effettivamente sono e per il piacere (o dispiacere) “diretto” e concreto che d’impatto riescono ad offrirmi. Sono di indole piuttosto avverso alle “sovrabbondanze” concettuali e ad una certa diffusa, esasperata, dannosa elucubrazione filosofica/intellettuale spesso “forzata” in ogni dove, che purtroppo distoglie e devia l’attenzione da quella che è la vita reale e da quello che quotidianamente, “concretamente” si ha intorno a sé e che sta diventando una sorta di pericolosa “arma di distrazione di massa”. Tornando alla domanda… non so dirti esattamente “per me” cosa sia la “spiritualità” del suono, ma posso più banalmente dirti che “il suono”, a seconda dei casi specifici, può piacermi o meno, emozionarmi o meno, appagarmi o meno. DAVIDE: Adesso zigzagando andiamo indietro: anni 2001/2002, il cd si intitola "Travel Diary" ed è un lavoro completamente diverso, tutto suonato con strumenti etnici. A tratti mi ha rievocato Canaxis. Dalle immagini e dai titoli, tra un Tempio del Buddha di Wat Phra Yai e un cuore antico di Chiang Mai nel Regno di Lanna si evince che sei in estremo oriente, in Thailandia. Si tratta dunque di una sorta di travelogue sonoro? Cosa ha guidato queste composizioni/registrazioni nuovamente, sebbene diversamente, sospese o in bilico tra l'arcaico (per altro ulteriormente estraneo ed estraniante, poiché non solo lontano nel tempo ma anche appartenente a una cultura del lontano est) e la visione oggi di un qualche futuro più o meno neo-occidentale, più o meno globale? GIUSEPPE: “Travel Diary” (pubblicato nel 2009 da Silentes) è una riedizione su CD di due miei vecchi CD-R raccolti insieme e rimasterizzati per l’occasione (Distant Skylines e Lanna Memories). “Distant Skylines” (2001) fu il primo album nel quale usai un programma di montaggio audio su PC, e “Lanna Memories” (2002) seguì poco dopo. Entrambi nacquero con l’intento di realizzare musica ambient/sperimentale/rituale utilizzando esclusivamente strumenti etnici da me suonati e field recordings rielaborate in vario modo, senza l’ausilio di sintetizzatori o strumenti elettronici di altro tipo. Fu una specie di “sfida” in un certo senso, ed è il primo album di una ipotetica “serie etnica” cui seguirono “The Missing Tapes”, “Krungthep Archives” e “Circles of the Vain Prayers”, albums che però lavorai con approccio diversificato. DAVIDE: Segue “Krungthep Archives”, 2007/2009... Ovvero Bangkok, di nuovo la Thailandia. Cosa ti lega così tanto a questo paese? E che valenza o significato dài agli strumenti musicali etnici e tradizionali contestualizzati all'interno di un progetto elettronico, comunque sperimentale? GIUSEPPE: Krungthep Archives (uscito nel 2011 per Silentes ma registrato tra il 2007 e il 2009) nacque dall’esigenza di tornare ancora una volta a lavorare su un album fortemente caratterizzato da sonorità di tipo etnico. Qui le pur prevalenti trame costruite con strumenti etnici furono arricchite da suoni di matrice elettronica, ricercando una “fusione” che riuscisse a descrivere, in musica, i forti contrasti che convivono quotidianamente in una metropoli straordinaria come Bangkok (o Krungthep in lingua thai), in perenne e precario equilibrio tra tradizioni millenarie e sfrenati eccessi di iper-modernità. DAVIDE: "Black Silences", anni 2010/2011. L'intrico di fili e tralicci elettrici della copertina, non solo la trovo molto bella di per sé, ma anche indovinata rispetto ai suoni prodotti in questo lavoro con la chitarra elettrica e l'elettronica ad essa applicata e che mi ha ricordato molto il lavoro di David Cunningham. Qual è dunque l'idea progettuale di Black Silences? Sembra essere per altro un lavoro più orientato alla "sporcatura" del suono, alle sue distorsioni... GIUSEPPE: “Black Silences” (uscito nel 2015 per Naked Lunch Records seppure registrato molto prima) è il mio primo album interamente incentrato su suoni di chitarra elettrica. Il mio risorto amore verso questo strumento che per molti anni avevo quasi accantonato, mi ha condotto finalmente a porlo al centro di questo album, un lavoro abbastanza “ostico” in realtà, caratterizzato dai movimenti lenti e ripetitivi e da sonorità “pesanti”, tetre, spesso distorte, aspre e ossessive. Sin dall’inizio l’idea è stata di realizzare un album poco “prodotto”… intenzionalmente molto istintivo, scarno, crudo ed “essenziale”… I fili elettrici presenti nelle immagini di copertina sono dettagli di foto scattate in Thailandia (ad eccezione della foto interna, scattata in Abruzzo vicino il lago di Campotosto), e ovviamente non sono stati scelti a caso, ma proprio per sottolineare e rappresentare in forma visiva quei suoni taglienti ed “elettrici” che caratterizzano l’intero album. DAVIDE: Veniamo ora ai tuoi due ultimi lavori. "September Winds" in realtà è uscito a nome di "Twist of Fate", progetto più ambient-folk-oriented, dreamwave. Decisamente acustico, anche se non del tutto assente l'elettronica, fatto soprattutto di chitarra acustica arpeggiata e violino, quello di Daniela Gherardi. E immagini di boschi... Reali. O forse di boschi come nei sogni, ma non quello dell'immaginario collettivo fatto di pericoli e misteri in agguato, piuttosto quello tranquillo, il santuario che gli antichi consideravano il luogo naturale e sacro in cui più forte si avverte la forza della natura, indipendente dalle gesta e dalle abitudini umane, un potente elemento intermedio fra la terra ed il cielo... Be', un lavoro molto diverso da quanto hai fatto finora... Hai ritrovato qualche strada nella foresta, nel bosco? GIUSEPPE: “September Winds” (2016, Oltrelanebbiailmare) è il secondo album del mio recente progetto “Twist of Fate” in collaborazione con mia moglie Daniela Gherardi al violino. Qui siamo su piani sonori completamente diversi dai miei più “usuali” lavori a firma “Nimh”, in quanto si tratta di un album molto “musicale”, molto “suonato”, basato quasi esclusivamente su chitarra acustica arpeggiata e violino, in un contesto in bilico tra folk, shoegaze, dreamwave, ambient… Quanto all’origine di questo album posso dire che negli ultimi anni è rinato in me un forte desiderio di “musica” intesa nel senso più “tradizionale” del termine. Sono tornato con piacere ad ascoltare molto musica acustica, spesso solo strumentale, e in questo contesto soprattutto molti album della storica (ma di intramontabile memoria) etichetta Windham Hill di William Ackerman, per me un artista di assoluto riferimento.Il ritorno a certe sonorità in fatto di ascolti personali ha evidentemente indotto in me il “bisogno” di esplorare sentieri musicali in qualche modo attigui, e così quindi dopo un primo CD di questo progetto (Tales from a Parallel Universe, 2014 GS Productions) ancora caratterizzato in ampia parte da suoni più elettrici, ambientali, comunque sicuramente meno acustici, ho scelto di spingermi in una direzione ancora più acustica e più spiccatamente melodico/musicale. DAVIDE: Veniamo ora al tuo altro ultimo lavoro, ancora del 2016: “Circles of the Vain Prayers”. Il disco apre con alcune registrazioni sul campo fatte da Enrico Verticchio a Lhasa, Tibet. ospite anche Claudio Ricciardi allo spacedrum. Queste composizioni, tra elettronica, loop e svariati strumenti musicali autoctoni si muovono nuovamente nell'universo est-asiatico, Tibet, appunto, Iran, Mongolia e poi ancora Thailandia. Quale l'idea di questo lavoro e quale significato dài tu personalmente al looping, alla reiterazione, la chiusura dei cerchi piuttosto che le spirali? GIUSEPPE: “Circles of the Vain Prayers” (2016, Rage in Eden) è nato proprio dall’idea di utilizzare una tecnica da me praticamente mai utilizzata nelle precedenti releases. L’album infatti è stato interamente costruito (salvo alcune sporadiche eccezioni) utilizzando brevissimi frammenti (2,4,6 secondi) di mie registrazioni di strumenti etnici, percussioni, voci, drones messi in loop. Non si tratta certo di una tecnica “rivoluzionaria”, anzi… ma per quello che è il mio personalissimo modo di registrare e comporre musica si è trattato certamente di una novità. L’idea di base è stata quella di abbinare la tecnica dei loops a suoni di tipo etnico per sviluppare brani dai forti connotati ipnotico-rituali, in grado di evocare in qualche modo le suggestioni e la sacralità di quegli antichi riti cerimoniali caratteristici di molti paesi asiatici. Anche qui certamente nulla di “inedito” in senso assoluto… ma sicuramente qualcosa di inusuale all’interno della mia pur multiforme produzione musicale DAVIDE: A cosa stai lavorando ora e cosa seguirà? GIUSEPPE: Ho finito proprio da pochissimi giorni il master del mio nuovo album collaborativo con Davide Del Col/Antikatechon. Dobbiamo ancora proporlo a qualche label, ma spero che possa presto vedere la luce in forma di CD stampato. Anche stavolta chi segue abitualmente la mia musica e quella di Antikatechon avrà di che rimanere sorpreso. Pur conservando infatti ampie parti in cui prevalgono sonorità di matrice drone-ambientale, nell’album sono presenti altrettante ampie parti stilisticamente ai confini con generi rock-wave-shoegaze, nei quali compaiono parti ritmate di basso e batteria (grazie a Davide) e riff di chitarra elettrica più o meno distorta, oltre a momenti ugualmente molto “musicali” ma dalle sonorità più “soft”, morbide e delicate un po’ come nei CD di Twist of Fate. Sarà qualcosa di davvero diverso dal nostro “solito”, e siamo molto soddisfatti del risultato, quindi… rimanete sintonizzati! DAVIDE: Ultima domanda. Conosci il simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, una riconfigurazione del segno matematico dell'infinito? È la fusione fra il primo e il secondo paradiso. Il primo è quello in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana, fino alle dimensioni raggiunte oggi con la scienza e la tecnologia. Il Terzo Paradiso è la terza fase dell'umanità, che si realizza nella connessione equilibrata tra l’artificio e la natura. Quello insomma di una nuova umanità, di un nuovo equilibrio. Questo percorso può rappresentare anche il tuo cammino artistico, in cerca di un "terzo paradiso" di equilibri tra l'acustico primigenio e i suoni naturali e la tecnologia elettronica, la scienza del suono? GIUSEPPE: Voglio essere sincero… La mia musica, almeno nelle mie intenzioni iniziali, cioè al momento in cui mi trovo a comporla e registrarla, è molto meno concettuale/spirituale/metafisica di quanto possa sembrare. In realtà il mio approccio è solitamente molto “pop”… prendo la chitarra… o un synth, o un qualsiasi altro strumento, trovo una parte… uno “spunto”… un’idea improvvisa che mi piace e che mi emoziona, la registro, e su questa inizio a lavorare in modo molto spontaneo e istintivo, con sovraincisioni, trattamenti… o aggiungendo nel mix elementi “attinti” da una vasta libreria di registrazioni di vario tipo e genere archiviate sull’hard disk del mio PC.
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